Martina Scapigliati per la rivista Ful
Benegiamo, abile nella tecnica dell’incisione a puntasecca, predilige personaggi scelti dal cupo della strada: prendendoli dal basso, è capace di innalzarli.
Delle incisioni di Benegiamo, dice il Maestro Adriano Bimbi che si tratta di un’arte ben fatta, perché non decorativa, ma identificativa di un
vissuto. «A volte i miei lavori, come quelli di Benegiamo, possono sconcertare: ma non si può avere paura del buio sempre. Bisogna affrontarlo!». Se guardi nel buio a fondo, cʼè sempre qualcosa.
Fabio Bix per la rivista DentroCasa
Il nero a sottrarre il bianco in cerca della luce
Sebastiano Benegiamo, i colori, se li mette addosso. Per il resto, il suo è più un lavoro di neri a sottrarre il bianco. Cerca la luce tramite il nero, Sebastiano.
Mi spiego. L’ho incontrato a Firenze. Appuntamento in stazione. Per riconoscersi mi disse: ho dei pantaloni verdi e una cartelletta. La cartelletta che conteneva i lavori, non a caso, era nera. Ma i pantaloni erano verdissimi. Il più acceso tra i colori di cui si era vestito. Per il resto, sopra, indossava campi di colore meno vivaci, campiture a blocchi terrigni, pezzi di natura collinare a vari strati: i marroni e i gialli del grano, le varianti crepuscolari del rosso, toni così. Indossava la toscana che lambisce le città, insomma. Niente di nero, addosso. Dev’esser più una cosa che gli viene da dentro, il nero. Prima di mostrarmi il contenuto della cartelletta, ha estratto dalla borsa uno scrigno sdrucito. S’intuiva esser stato un diario di fattura pregiata, in origine; l’usura gli aveva conferito il fascino consunto del tempo e delle esperienze accumulate. Schizzi da diario di viaggio. Sulle pagine a sinistra, infatti, c’era la sinossi di ciò che nella pagina di destra era schizofrenicamente disegnato. Tutto a biro. Nerissima. Ritratti di vita comune. Amen. Sebastiano ha vissuto a Milano 3 anni. A Londra 3 mesi. C’era una sorta di nebbia metaforica, nei suoi lavori. Di occhi “volutamente” appannati. Un’atmosfera come se piovesse, sempre, anche se il cielo era sgombro di nubi. Finché è tornato nella sua Firenze, terra dai ritmi più consoni ai suoi. Terra di umanità e umanesimo a lui più affine. Ora si dedica alle incisioni. Punte secche. Ciò lo costringe a una disciplina che non gli era in dote. Lo avvicina alla dimensione del sacro che cerca nei soggetti più comuni. Barboni di strada o amici barbuti, panchinari panciuti in cui si rispecchia l’immagine di un Buddha ritornato ai giorni nostri, se più meditante o meditabondo non è chiaro. È infatti un chiaro scuro, il suo. O una ricerca del chiaro nell’oscuro. La sua forma di espiazione del – o per il – mondo.
Martina Scapigliati, personale Preludio
pre-lù-dio
“SIGN. In musica, parte introduttiva di una composizione.
Dal latino: praeludium composto di prae - prima e ludus - gioco.
L'ampliamento di questa parola del lessico musicale - parola che raccoglie in sé tutto il sentimento di un'attesa eletta - dà alla generica introduzione un'aura magica: il preludio è preparazione del corpo armonico della musica, e racconta lo smuoversi di ingranaggi concordi, posata nel riferimento etimologico al gioco. Insomma, enorme è la dignità del preludere”.
Una raccolta di mani che si preparano a tatuare appaiono nelle immagini incise a puntasecca di Benegiamo. La rappresentazione profana del gesto di chi incide (la lastra, la pelle) con oggetti comuni, basterebbe a suscitare una sacralità, nella continua evocazione dell’aspetto mestierante delle mani, di tutto il prima che c’è rispetto all’atto finale. Qui, il tatuatore mischia i colori, prepara il disegno da trasferire, predispone gli strumenti… in una sospensione che concede tempo per soffermarsi su di un realismo che non prescinde un trascorso metafisico, dove il soggetto è lo spunto necessario per l’utilizzo degli scuri, delle ombre, dei neri. Da quei neri capaci, da quei segni incisi con rabdomatica certezza, nasce quell’aria di sogno dell’arte intimistica di Benegiamo.
Un lavoro carico di tecnicismi che Benegiamo compie naturalmente e con scrupolo, direi quasi da certosino, tanto è paziente, e sensibile: e che approda ad effetti pittorici, in un atto poetico che trova la sua costruzione in gesti carichi di tensione.
Il nero a sottrarre il bianco in cerca della luce
Sebastiano Benegiamo, i colori, se li mette addosso. Per il resto, il suo è più un lavoro di neri a sottrarre il bianco. Cerca la luce tramite il nero, Sebastiano.
Mi spiego. L’ho incontrato a Firenze. Appuntamento in stazione. Per riconoscersi mi disse: ho dei pantaloni verdi e una cartelletta. La cartelletta che conteneva i lavori, non a caso, era nera. Ma i pantaloni erano verdissimi. Il più acceso tra i colori di cui si era vestito. Per il resto, sopra, indossava campi di colore meno vivaci, campiture a blocchi terrigni, pezzi di natura collinare a vari strati: i marroni e i gialli del grano, le varianti crepuscolari del rosso, toni così. Indossava la toscana che lambisce le città, insomma. Niente di nero, addosso. Dev’esser più una cosa che gli viene da dentro, il nero. Prima di mostrarmi il contenuto della cartelletta, ha estratto dalla borsa uno scrigno sdrucito. S’intuiva esser stato un diario di fattura pregiata, in origine; l’usura gli aveva conferito il fascino consunto del tempo e delle esperienze accumulate. Schizzi da diario di viaggio. Sulle pagine a sinistra, infatti, c’era la sinossi di ciò che nella pagina di destra era schizofrenicamente disegnato. Tutto a biro. Nerissima. Ritratti di vita comune. Amen. Sebastiano ha vissuto a Milano 3 anni. A Londra 3 mesi. C’era una sorta di nebbia metaforica, nei suoi lavori. Di occhi “volutamente” appannati. Un’atmosfera come se piovesse, sempre, anche se il cielo era sgombro di nubi. Finché è tornato nella sua Firenze, terra dai ritmi più consoni ai suoi. Terra di umanità e umanesimo a lui più affine. Ora si dedica alle incisioni. Punte secche. Ciò lo costringe a una disciplina che non gli era in dote. Lo avvicina alla dimensione del sacro che cerca nei soggetti più comuni. Barboni di strada o amici barbuti, panchinari panciuti in cui si rispecchia l’immagine di un Buddha ritornato ai giorni nostri, se più meditante o meditabondo non è chiaro. È infatti un chiaro scuro, il suo. O una ricerca del chiaro nell’oscuro. La sua forma di espiazione del – o per il – mondo.
Martina Scapigliati, personale Preludio
pre-lù-dio
“SIGN. In musica, parte introduttiva di una composizione.
Dal latino: praeludium composto di prae - prima e ludus - gioco.
L'ampliamento di questa parola del lessico musicale - parola che raccoglie in sé tutto il sentimento di un'attesa eletta - dà alla generica introduzione un'aura magica: il preludio è preparazione del corpo armonico della musica, e racconta lo smuoversi di ingranaggi concordi, posata nel riferimento etimologico al gioco. Insomma, enorme è la dignità del preludere”.
Una raccolta di mani che si preparano a tatuare appaiono nelle immagini incise a puntasecca di Benegiamo. La rappresentazione profana del gesto di chi incide (la lastra, la pelle) con oggetti comuni, basterebbe a suscitare una sacralità, nella continua evocazione dell’aspetto mestierante delle mani, di tutto il prima che c’è rispetto all’atto finale. Qui, il tatuatore mischia i colori, prepara il disegno da trasferire, predispone gli strumenti… in una sospensione che concede tempo per soffermarsi su di un realismo che non prescinde un trascorso metafisico, dove il soggetto è lo spunto necessario per l’utilizzo degli scuri, delle ombre, dei neri. Da quei neri capaci, da quei segni incisi con rabdomatica certezza, nasce quell’aria di sogno dell’arte intimistica di Benegiamo.
Un lavoro carico di tecnicismi che Benegiamo compie naturalmente e con scrupolo, direi quasi da certosino, tanto è paziente, e sensibile: e che approda ad effetti pittorici, in un atto poetico che trova la sua costruzione in gesti carichi di tensione.
Chiara Gatti, collettiva In hoc signo
Benegiamo indaga oltre le apparenze. E' un cacciatore di anime, di coscienze. Quelle che vibrano sotto la superficie delle cose e che solo l'occhio attento può percepire. Il ritratto, che all'inizio del suo percorso tradiva modi espressionisti, un po' tedeschi, dai segni neri spessi, i lineamenti spigolosi, oggi è diventato un'alibi per scavare nella materia - fisica, stratificata del cartone spesso un dito - in cerca di una verità altra. Di un abisso, una intimità dell'individuo svelato nel suo lato nascosto. Sfogliando, erodendo, grattugiando la pelle della cellulosa, trattata plasticamente quasi fosse creta da sbriciolare fra le mani, ecco allora affiorare l'aurea. Il mistero di un volto.
Guido Cabib, personale Glow in the Mist
Il ritratto non è solo un genere pittorico, ma una rappresentazione della percezione che gli artisti di ogni epoca ebbero di sé e dell’uomo più in generale, ciascuno secondo il proprio tempo, la propria cultura e la propria storia
Fra i più noti filosofi contemporanei del pensiero post-decostruzionista, Jean-Luc Nancy è autore di un fondamentale libro sul ritratto (Il ritratto e il suo sguardo, 2000). Al centro del suo esame la reciprocità dello sguardo fra soggetto e spettatore. La tesi, centrale nello studio e nella critica dell’arte, parte dalla constatazione base che la produzione di ogni opera, nel presupporre l’esistenza di uno spettatore, trovi la propria giustificazione intrinseca. Nel caso del ritratto, la complessità relazionale aumenta esponenzialmente fino a comprendere, oltre al rapporto spettatore-opera, la relazione tra artista e modello.
Il filosofo francese finisce per attribuire al ritratto uno statuto ontologico: non un genere come gli altri, ma un riferimento essenziale e concreto per misurare l’esercizio della rappresentazione. Nancy individua nel ritratto un medium in grado di interpretare la complessità propria della realtà. L’atto dell’osservare e le aspettative di produrre una fedele immagine del soggetto hanno conferito al ritratto il potere di manifestare il nodo inesauribile tra identità soggettiva e immagine pubblica.
I 13 splendidi ritratti di Sebastiano Benegiamo sono la rappresentazione dell'uomo di oggi , in piena rivoluzione ed evoluzione post-industrale.
Che oggi in Occidente sia in atto una crisi di valori come raramente si è dato nella nostra storia, è un fatto che nessun osservatore, di qualsiasi estrazione culturale e politica, osa negare. C’è un senso di perdita, una rottura, l’abbandono del grembo materno con l’ingresso in un mondo non necessariamente ostile ma sconosciuto, che non ci appartiene. E in un’epoca che vede in crisi le fondamenta della nostra comunità - la famiglia e la scuola non più capaci di educare ma solo di istruire - questa società ci prende con sé, vuole allattarci e custodirci per rispondere al nostro desiderio di abbandono. I ritratti di Sebastiano sono alessitimici, così come l’alessitimia ci rende incapaci di nominare e di esprimere le nostre emozioni,così le figure ritratte (il bambino, il santo, il papa, l'artista, il gallerista, il generale, la maestra, la fidanzata etc) sono prive quasi totalmente di identificazione, sono contorni sbiaditi, erosi, senza alcuna narrazione, perdono definitivamente la possibilità di essere protagonisti della loro vita.Il nostro cuore a volte è solo un lento battito, un muscolo ottuso che non sa svelarsi alla magia del mondo e al futuro che penetra l’ignoto.
EMANUELE BELUFFI, personale Glow in the Mist
Il lascito della produzione artistica di Sebastiano Benegiamo è il segno. Ancor più che nel recente passato, questa sorta di residuo fenomenico del suo fare pittura si riduce a un affievolimento del soggetto in un lago di tenebra. Se nei lavori precedenti dominava un’attitudine alla dissolvenza, ora a dar l’impronta di sé è un azzeramento quasi totale, un ottenebramento tuttavia non totalizzante: l’approccio inedito della serie Glow in the mist esposta negli spazi di The Format Gallery è rappresentato infatti dal colore. Non esibito, ma quasi evocato. Da cercare, come pepita preziosa, come accento, nelle stratificazioni nere e terrigne che compongono ogni opera, originata dal segno a matita nera e poi dipinto: il dipinto-del-disegno nasce e si sviluppa lungo le falde che strato su strato vanno a determinare la superficie di concrezioni fino a far venire alla luce….l’oscurità, quell’oscurità su cui sopravviene, quasi illuminandosi come un’intravisione dal film pittorico, il soggetto. La tenebra di Sebastiano Benegiamo è un bagliore. Chi già conosce il suo lavoro, non potrà non cogliere come Glow in the mist ne ribadisca la cifra stilistica: un approfondimento dell’idea di luce, una ricerca che in questa occasione viene condotta da Benegiamo come se si trattasse di fare i conti con se stesso. E’ un’oscurità che per recondite armonie si accompagna al riconoscimento del valore dell’antico -l’antica pittura-, che qui più che altrove risuona come un basso continuo, un rumore di fondo elevato a valore simbolico di tutta la mostra in sé, ordinata secondo una struttura: la struttura dell’universo umano, che dai tre quadri al centro della composizione raffiguranti rispettivamente il demiurgo e ai suoi lati gli infanti maschio e femmina, si sviluppa lungo le direttrici rappresentate da dieci quadri, tutti raffiguranti idealtipi umani, modelli di condizioni esistenziali ed esistentive -l’amore, il mecenate, il papa, il generale-, che trasfigurano l’approccio al fare pittura di Sebastiano Benegiamo come un approccio di carattere mitopoietico, inattuale come inattuale è la ricerca del genio che precorrendo i tempi sembra hic et nunc così demodé….
PASCAL ANCEL BARTHOLDI, collettiva Magma collective in Florence
Tre immagini, due su intonaco, la terza su tela intonacata. Sebastiano utilizza una tecnica arcaica. Noi rileviamo strutture, forse classiche. Si alzano incerte nella nebbia. L'atmosfera ha il colore del materiale utilizzato. La memoria sta svanendo, eppure è fissata nella massa fisica del mezzo che riflette un'altra epoca, una cultura che incontriamo solo nei libri, una narrazione il cui significato viene riconosciuto dal passante.
PASCAL ANCEL BARTHOLDI, collettiva La bellezza fa 13
Sebastiano Benegiamo simula l' affresco, un metodo conservato solo da pochi. Il ritratto di un essere senza volto rende impossibile la distinzione tra uomo e donna . Dà il senso di ciò che potrebbe essere accaduto al vero sudario, imprimendo al velo della Veronica la sinistra chimica del calvario. Non vediamo nessuno qui, tutte le confessioni personali sono cancellate, solo il bordo esterno è superstite.
FRANCESCO BOTTI, collettiva Clima
Sebastiano Benegiamo scava, gratta, scopre. Le sue figure sembrano emergere da una foschia soprannaturale, timida e misteriosa, per comunicare sospensioni e passaggi temporali. Ritratti di anime o figurazioni di fantasmi e stati d'animo incarnati in un clima denso e affascinante. Segno formidabile, forme accese in ombre che parlano di sofferenze allo specchio. "Mimi stai bene?" chiede una presenza da dietro una tenda.
FRANCESCA COPPOLA su Exibart, collettiva Ritratto in vita
I ritratti di Sebastiano Benegiamo, toscano, rivelano un’anima intimista e si contraddistinguono per il procedimento tecnico utilizzato. Schizzato il volto del soggetto prescelto sul cartone, inizia una lenta e paziente erosione del materiale mediante cancellature ed aggiunta di acqua che permette di esfoliare sistematicamente il lavoro di partenza. Alla fine, del volto non resta nient’altro che un alone, un’idea, una sfumatura, una traccia. Il cartone lavorato sembra perdere le sue caratteristiche molecolari per trasformarsi in un materiale più coriaceo, e assimilarsi ad una superficie muraria, al cancellato schizzo preparatorio di un affresco.
EMANUELE BELUFFI su Kritikaonline
Per ragioni che vi saranno note in seguito, non mi è difficile parlare di Sebastiano Benegiamo (è nato nel 1982 a Fiesole e ogni tanto sta a Milano). Dal momento che non state leggendo né un racconto né un romanzo e che la destinazione di queste sudate carte è localizzata nel piccolo mondo antico dell’arte contemporanea, è del tutto inutile che vi dica che Sebastiano Benegiamo è un artista, nella fattispecie un pittore. Ora non so se lui gradisca esser definito tale: alcuni artisti si schermiscono di fronte a una definizione così impegnativa, vuoi per falsa modestia e consapevolezza della propria eccellenza («Io non sono un artista, sono un pittore!»), vuoi per malcelata umiltà («Le cose che faccio sono opere d’arte? Mah! »), vuoi perché in generale l’abuso della parola “artista” l’ha ormai consegnata a una fortissima precarietà semantica (chi è che scrisse L’arte della guerra?). Comunque, Sebastiano Benegiamo realizza quadri dalla forte potenza evocativa: quadrucci pulitini? Col cazzo! Per quanto possa capitare che siano straordinari, non mi riferisco a oceani in tempesta, corpi trasfigurati, paesaggi sofisticati e monocromi-vedo-non-vedo, né a una pittura intellettuale, letteraria, romantica, narrativa o debitrice dell’Art Brut (chiamo in causa l’Art Brut perché di solito quando ti trovi di fronte a quattro carte appesa alla cazzo con soggetti che sembrano dipinti da un infante come se fossimo in un loft di New York negli anni Ottanta, la sfanghi citando Dubuffet e tenendo la mano sotto il mento pensoso).
Il soggetto prediletto di Sebastiano Benegiamo è il ritratto. Il ritratto definito attraverso forme. Forme affinché l’ineffabile venga detto. Perché? Da artista lui risponderebbe: perché si crea. Dette forme sono segni e l’unica cosa che veramente conta in un suo quadro è appunto il segno, o per meglio dire il lascito del segno. Preferirei però parlare di lascivia anziché di lascito: nulla di pruriginoso, ‘chè i soggetti di Sebastiano Benegiamo non fanno i paraculi né hanno l’aspirazione ad esserlo, ma certamente sono caratterizzati da una pregnanza visuale scabra che oppone una forte resistenza all’estasi estetica di te che guardi, preferendo piuttosto sbatterti in faccia tutta la loro polverosa bellezza. E’ la bellezza del disturbato, del distorto e dello sporco. Che presi in sé contano nulla, ma incanalati in un universo di discorso estetico si votano con ciò stesso a una trasmutazione semantica che li rende il terminem ad quem del lavoro d’arte. In fin del conto Arthur Danto ce l’ha insegnato, è il significato a fare l’opera d’arte.
Creare una forma per cui l’indicibile venga detto
Ma perchè?
Perchè si crea
Quando vidi per la prima volta un bocconcino della produzione artistica di Sebastiano Benegiamo stavo passeggiando fra gli stand di una fiera d’arte a Milano. I suoi quadri e le sue carte erano lì, appoggiati a terra o infilati in uno scaffale come i CD di un negozio di dischi (e chi se li compra più i CD!), con la differenza che lo spazio espositivo era lo stand di una galleria. Spulciai in mezzo al campionario come quando da ragazzino (ma neanche tanto tempo fa!) cercavo fra i CD nel negozio di dischi preferito, ma fu la visione di un quadruccio appoggiato alla parete a far partire il colpo di fulmine: era un ritratto appena percepibile, realizzato con segno primitivo, scarno, nervoso e grattato via, di modo che del soggetto fosse visibile la sagoma, la forma appunto, piuttosto che la figura. Il fondo era oscuro e privo di fronzoli, ma stava dalla parte opposta del minimalismo scicchissimo: in effetti quando dici “minimalista” pensi alla sofisticatezza di superfici limpide dall’aria distinta, ma in questo caso il referente visuale era la lordura del buio, l’annullamento dello sfondo attraverso lo sporco della materia segnica, il film pittorico graffiato via fino a lasciare il grado zero della percezione.
Il risultato era una figurazione scabra, cretina come un artista (Duchamp disse già tutto, il resto è una serie di glosse al suo pensiero) e arguta come un alienato, vagolante in un lago di nebbia grumosa e racchiusa entro una cornice povera trovata dallo sfasciacarrozze, ma tutt’altro che vogliosa di strizzare l’occhiolino al poveraccismo ecologista degli oggetti trovati e dell’arte fatta con materiale di riciclo: io penso infatti ai quadri di Sebastiano Benegiamo come alla forza tranquilla di un dramma gentile, penso a Sebastiano Benegiamocome al bravo scrittore che non vuole gli si rompano i coglioni, operativo in quella solitudine fortemente voluta che titilla l’attenzione del mondo esterno.
Perché io credo che il lavoro d’arte di Sebastiano Benegiamo sia potente ed eccellente, difficilissimo da vedere (Saper vedere, così aveva titolato il critico controcorrente Matteo Marangoni il suo saggio di critica d’arte di cinquant’anni fa), perché in apparenza noi vediamo solo linee e segni e figure sgrammaticate buttate dentro cornici sgarrupate, ma sotto e oltre c’è molto di più: c’è l’Übermensch de noartri, l’oltreuomo (attenzione! Non: il superuomo, ma l’oltreuomo), solo che qui Nietzsche non c’entra nulla, siamo dei provinciali del cazzo e in fin del conto col lavoro d’arte di Benegiamo parliamo non del concetto ma della persona individuata e singola e concreta, catturata però in una dimensione oltre il quotidiano e altra rispetto alla operosa familiarità di ogni giorno: in qualche maniera evocata, tributata.
Ed è un tributo che noi vediamo attraverso gli occhi di Benegiamo, il quale non ci racconta nessuna storia, ma lavora l’arte come materiale simbolico, come quando in un film d’autore, sullo fondo di un dialogo, il regista ci fa vedere una macchia di ruggine: perché quella macchia di ruggine sta lì per il tutto, rispetto al quale i due personaggi che parlano, che pure costituiscono l’ “esserci” della messa in scena, non c’entrano una mazza. Così è per questi quadri scabri e rugginosi: ciò che noi vediamo va al di là del soggetto, perché Sebastiano Benegiamo ci fa vedere solo quello che vuole lui.
ROSSELLA FARINOTTI, personale Soulfull
Un crepitio di verde. Foglie appese, foglie per terra, paglia, alberi ricreati, tronchi installati, volti, presenze ...
Sebastiano Benegiamo crea un bosco all'interno dello spazio di Quinta Officina. Un luogo decontestualizzato, in Milano, dove lo spettatore magicamente si sente per un attimo perso, per poi spalancare gli occhi con l'intuizione di essere entrato in un luogo insolito: un bosco di foglie, legno, tronchi d'albero, paglia qua e là e poi davanti ... volti. Volti in fila, che ci riportano alla realtà, accompagnandoci nella stanza, come insolite presenze che dalla parete ci spiano e sono spiati.
Persone, personaggi, anime, umani, spiriti ? Tra uno spiraglio e l'altro ecco un volto, un dettaglio ...come nella caverna di Platone vivono presenze legate e inserite in un luogo immaginato e immaginario, cupamente allestito dall'artista. Sebastiano ricrea un micromondo buio all'impatto, ma con spiragli di vita, e di luce.
Luce tra le foglie ormai seccate, e luce dalla finestra. Un binomio contrapposto tra buio e illuminazione, tra assenza e presenza, tra natura e morte.
Una natura data dal contesto faticosamente elaborato in giorni di duro lavoro dell'artista che, sacco per sacco, foglia per foglia, tronco su tronco, ha portato materiale all'interno dello spazio sofisticatamente grigio di Quinta Officina, come un instancabile presenza al lavoro tra parchi e boschi, per poi riproporne uno come sua rappresentazione, e come abitacolo per quei fantasmi che ci abitano.
Un buio restituito dalla fitta presenza di foglie, e che si estende fino all'angolo dove i volti non sono più visibili. Una serie di teste rigorosamente in fila come a giudicare lo spettatore, entrato a disturbare., o semplicemente a osservare queste presenze che, come nella caverna, di realtà ne conoscono una: la loro del bosco, quasi un rifugio dal mondo dove di tanto in tanto forse è meglio rintanarsi.
DANIELA PACCHIANA, personale Diario Visuale
In mostra trenta disegni inediti e un dipinto – realizzati dal vero – che immergono completamente lo spettatore nel mondo di Sebastiano Benegiamo, giovane artista fiorentino. Ritratti i suoi affetti – padre, madre, fidanzata, amici, artisti – ma anche i luoghi che frequenta, che vive: opere forti, incisive e penetranti. Traduce in immagini gli stati d’animo: volti di donne e uomini riflessivi, sereni, ma anche tristi che parlano con gli occhi e le espressioni del viso trasmettendoci le loro sensazioni e la loro visione del mondo. Come in Essere John Malcovich, lo spettatore si identifica per tutta la durata della mostra in Sebastiano Benegiamo, guarda coi suoi occhi e prova le sue emozioni. Attraverso i volti degli altri, l’artista attua una personale ricerca e analisi introspettiva-psicologica della sua quotidianità: luoghi, persone, affetti. Arte come luogo di riflessione e disanima dell’io e della propria personalità. Profonda necessità di immortalare ogni respiro della sua vita e tutto ciò che lo circonda. Tonalità velate, leggere, tendenti ai grigi e ai bruni, funzionali a focalizzare l’attenzione sul soggetto, sull’interiorità. L’artista non realizza dei ritratti iperrealisti, ma accentua volutamente difetti, imperfezioni e asimmetrie: tratti fisiognomici unici e distintivi. L’universo interiore ed esteriore di Sebastiano si fondono per mostrarci il complesso mondo dell’artista. Riflessione intima e delicata, dolce e amorevole. In alcuni casi, il soggetto è quasi totalmente celato dalla stessa materia: è proprio la presenza e l’assenza di pigmento a dare corposità e profondità alla figura. Colate di terra che danno consistenza alle composizioni. Lavoro reiterato sul foglio legato al mettere e al togliere progressivo: è col levare che si crea, si forma la figura. Artista famelico, dinamico, maturo, opera solo se in presenza d’ispirazione, di istinto creativo. Nonostante abbia realizzato con successo opere a colori, si trova ora nella fase del bianco e nero, del disegno e in particolar modo nei generi presenti in mostra: ritratti e paesaggi. Sebastiano vive in simbiosi con l’arte, vi si immerge totalmente: arte, quindi, come sinonimo della sua vita.
SUSANNA RAGIONIERI, collettiva Secretum
Ciò che ha colpito Sebastiano Benegiamo è stato il volto umano nella sua qualità di effigie consunta come ci restituiscono certe immagini stampate sulla carta dei quotidiani oppure le fotografie ritoccate su porcellana dei morti che ci guardano dai cimiteri. Immagini dilavate come ciottoli oppure ancora cariche di energia compressa, misteriosa ed ipnotica. La sfida di Benegiamo è stata quella di portare a galla con i mezzi della pittura le tracce di quella sindone diversa per ognuno e simile per tutti oltre la quale si spalanca un intero mondo fatto di infinite storie personali, ma si cristallizza anche un destino comune. Brevi frammenti di abiti raccontano della vita passata di chi è stato un tempo contadino, musicista, calciatore, casalinga, o impiegato; a questi elementi, spesso un inserto a collage, l'artista affida il colore, in una gamma raffinata e perentoria di toni a contrasto di un volto spesso monocromo e tormentato dai graffi e dalle lacerazioni della matita, un volto in cui brucia il fuoco delle diverse intensità degli sguardi. Questo discorso in riduzione elaborato su ogni individuo, si compie in tutto il suo significato nell'installazione che Benegiamo ha ideato per destinarla alla Cappellina di Piazza della Colonna a San Piero a Sieve: 54 ritratti di formato verticale sono disposti su tre file sovrapposte, allineati su semplici mensole di legno grezzo, alle due pareti, su un fondo comune dal quale emergono frammenti di frasi e segni casuali come traccia sonora di un bisbiglio lontano di voci, mentre al centro della cappella lumini accesi colorano la penombra. Se già maestri come Boltanski hanno ricondotto l'attenzione verso i temi della morte e della memoria nei grandi stermini di massa, le generazioni posteriori, alle quali Benegiamo appartiene, sembrano voler affrontare un discorso ulteriore: quello sulla memoria della specie, la più collettiva e transculturale possibile alla ricerca della frontiera sottile dove le diverse identità sociali si scontrano con i geni del destino.
NICOLA MICIELI, collettiva Abitare il paesaggio
Induce in Benegiamo un più sommesso sentimento del mistero l'ordito più serrato dei tocchi e la maggiore densità della
materia, che rimane intuitivamente fervida e sommossa, e dunque pervasa di vitalità, anche quando la luce che la rivela sia
concentrata nei lumini d'una casa immersa nel paesaggio notturno.
SUSANNA BURICCHI, collettiva Naturalità
Intimi colloqui
Oggetti spiazzati, ma legati in un dialogo sommesso ai margini della vita quotidiana, come la bottiglia, inseparabile dalla sua
ombra sghemba. E una pittura scabra che non vuole idealizzare gli oggetti, ma evidenziare la brutalità irrimediabile della materia, la sua inesplicabile ragione di esistere. Vi è infatti nelle cose, così come nei volti delle persone, una luce, un fondo spirituale che le rende ambigue, che ne fa spoglie corruttibili sì, ma di arcana natura. C'è in questa pittura la palpitazione e l'emozione che suscita la scoperta dell'aura di mistero che emana tanto dalle cose inanimate quanto dalle creature viventi e insieme la sincerità di una fragilità esibita, che è già una forza se la si lascia esprimere. Probabilmente non lo sa Ilaria, la ragazza che legge i libri, i cui pensieri affiorano dallo sguardo e fanno vibrare intensamente lo sfondo.No, non lo sa, ma non importa: è da lì che viene la sua grazia.
GIUSEPPE CORDONI, collettiva Per le vie del Mugello
Ogni creatura, senza saperlo, si porta dentro (addosso!) i cieli degli spazi che attraversa e le luci dei giorni che ha vissuto. A sua volta, deve esserci una memoria che vi sintetizza le dominanti cromatiche sperimentate: la tonalità che finisce per imporsi come decisiva del suo più intimo sentire. A questa percezione conclusiva Benegiamo deve esser giunto contemplando i colori dei piccioni. Pensate ai grigi perla o ai neri senza fondo, al bianco latte o ai cenere, ed al blu. Non v'è colombo che non sia vestito del colore e della vastità dei suoi voli; non v'è cielo dipinto che qui non rifletta l'anima dei colombi. Anche quando non volano; quando invece bevono, saltellano, becchettano, o tubano teneramente strofinandosi i becchi, o sostano immobili,
misteriosamente appollaiati sul lungo filo che attraversa l'aria inquieta d'ogni crepuscolo. Con che sapiente fraseggio grafico
il pittore li sintetizza e li incide vivissimi per sempre su queste grandi tele dai toni grigio-celesti. Dimmi in che colore la vita ti ha immerso, per sapere se sei felice.